Nel titolo, c'è un vecchio detto, un tempo molto utilizzato che tuttavia anche oggi, lo si sente dire. Per estensione si dice "tiassi su da dossu ca te pesi" (levati da dosso che pesi) e non si riferisce alla stazza di chi dovrebbe (deve) togliersi di mezzo. E' piuttosto riferito a chi è patetico, lagnoso, anche noioso e antipatico assai. Per dirla tutta, uno che dà fastidio.
Facile sentirsi apostrofare con le stesse frasi, le moine, i soliti discorsi; tutti aventi un unico fine: dare fastidio e impietosire, anche quando se ne potrebbe fare a meno. Giusepèn è drastico: pedante sarebbe la parola appropriata, nei confronti di chi, a cui va tutto storto, è mai contento, non sa come affrontare un problema e chiaramente, non sa come risolverlo. Quindi, "incarica un altro" a capire quel che lui non capisce, arrivando ad "accusare" gli altri della sua inconcludenza.
Un pizzico di iniziativa, ce l'hanno tutti, ma chi persevera per ignavia, infingardaggine, indolenza, non vede altra soluzione se non "appoggiarsi" ad altri, senza reticenza e con assoluta mancanza di amor proprio. Giusepèn condanna gli ignavi, a tutto spiano. Tollera, Giusepèn gli incapaci, ma chi a priori "ga à ben naguta" (va bene nulla), li considera smidollati, "culòna vertebràl da vedar" (colonna vertebrale di vetro), "ca l'è mei perdai che truoi" (che è meglio perderli di trovarli).
Nella fattispecie degli... "indesiderati" ci sono i falsi-furbi, gli scrocconi, i petulanti, i viziosi che non lesinano a "marmuò" (mormorare) nei confronti degli altri, mettendo zizzania non certo a ragion veduta. Costoro, raccontano una "storia" inventata e palesemente inverosimile, con lo scopo di creare dei contendenti che poi finiscono con litigare. Quando poi, la verità viene a galla, costoro, i millantatori si scusano dietro a un laconico "m'àn dì inscì" (mi hanno detto, così).
Giusepèn snocciola esempi di ridicolaggini che implicano il modo di ragionare del "popolino" che sparla, invece di dialogare e che cerca "ul peu in du oeu" (il pelo nell'uovo), quando il "pelo" non c'è e non dovrebbe mai esserci. Il "tiassi su da dossu" è per gli impostori, per chi elemosina pietà laddove non è necessaria, tutto per farsi compatire e ricavare da questo "compatimento" un banale modo di vivere "teme chi fàn i zechi sul peu di besti, candu i sudàn" (come fanno le zecche sul vello degli animali quando sudano) - sanguisughe che, all'atto pratico valgono nulla, ma tentano di mettersi in mostra, senza avere le credenziali. Come fa chi gioca a poker che con abilità o con scarsa dimestichezza, cerca di bluffare e indurre gli avversari a credergli e... perdere la partita.
Nella casistica dei "sta su da dossu, ca te pesi" ci sono i parolai, i petulanti e i perversi: tutta gente da tenere alla larga, per un fatto semplice: al di là delle belle parole, non c'è costrutto e nemmeno verità. Giusepèn mi racconta un caso personale: "gheu 'n'amisi cal sa fea prestò dane da tuci e …al paghèa nisogn" (c'era un amico che chiedeva prestiti a chicchessia e... non restituiva) - il gioco era "sporco", ma durava poco. L'amico svicolava, quando incontrava i suoi creditori, ma ovviamente, non era così facile di concludere (evitare) qualche incontro, non certo piacevole.
Per chiudere la questione all'amico, magari di fronte a una legittima richiesta, si rispondeva semplicemente con il "tiassi su da dossu, ca te pesi" e, la condanna diventava definitiva.