Mentre si discorreva in Dialetto Bustocco con Giusepèn e altri tre personaggi della compagnia, sono emersi due vocaboli nuovi, mai trattati nei due libri "ul Giusepèn" e "Giusepèn e Maria" - sono: taca su con quella u finale da leggere alla francese e tegnòn che, in buona sostanza si possono tradurre in tirchio e "braccine corte" per indicare una persona restia a pagare.
Col "taca su" si può intendere un falso-indigente che ama fare l'avaro. Per dirla con un esempio, gli operai, al termine del proprio turno di lavoro, si fermavano all'Osteria e "a roea" (a ruota) pagavano il conto all'oste - metti tre operai, una volta pagava il primo, una volta pagava il secondo e ovviamente, una volta pagava il terzo - ciascuno beveva tre bicchieri di vino e ciascuno aveva pagato "un giro" di bevuta. Il "taca su" si aggiungeva al gruppo e con falsa-furbizia beveva "a macu" (a ufo - gratis) e quando inevitabilmente qualcuno glielo faceva notare, il falso-furbo faceva una dichiarazione spiccia e falsa "a podu non" (non posso pagare). Ecco che sorgeva quindi la necessità di dire "chèl lì l'e'n tegnòn" (quello lì è un avaro e ha le braccine corte).
Giusepèn tira in ballo due parole "scordate" da uno dei personaggi e che nel libro "ul Giusepèn" erano citate: "ùua" e "mùua" che differenziano fra loro per una m - la "ùua" è la lanuggine che si formava nel telaio, quando la navetta compie il tragitto di andirivieni nella tessitura. Quindi, a lavorazione ultimata, la tessitrice aveva il compito di pulire il corso della navetta, dalla lanuggine che si formava dalla lavorazione del filo - la "mùua" invece, la possiamo applicare alla "paghetta" che genitori e nonni, consegnavano ai ragazzi, prima di andare all'Oratorio. Il ritornello era quello: "scià balèn càa doti a mùua" (viene ragazzo che devo darti la paghetta) che ovviamente serviva per le "necessità" personali … tipo "giùsu" (liquirizia) - "faina di mochi" (farina di castagne) - "gazusa cunt'àa strenga" (gazzosa con la stringa di liquirizia) oppure per "ul dulzi" (il dolce) che, allora era una specie a forma di pesca in pasta frolla dalle grandi dimensioni, ricoperta di zucchero o il classico mottarello o pinguino che erano i gelati che andavano per la maggiore.
Altro vocabolo emerso nella bellissima discussione, tutta in Dialetto Bustocco da strada, "a pusi" che abbiamo chiamato vocaboli, ma che in realtà determina un concetto ben chiaro. Dire "stò a pusi" significa "sto al riparo" e va bene per stare al riparo dai raggi cocenti del sole, ma pure stare al riparo dalla pioggia persistente, per non incorrere a scottature, per la parte del "sole" e a raffreddori per quella relativa alla pioggia - c'è un ricordo in ciò - andavo ad aiutare zio Enea che possedeva nella sua Trattoria, un pergolato dove si arrampicavano i tralci e le piante dell'uva e ogni tanto, lì sotto si giocava alla "briscola" o allo "scopone" - gli avventori sedevano al riparo del solleone e prima, avevano espresso il desiderio di essere messi "a pusi" e all'aperto - sostanzialmente, "a pusi" aveva il valore del "riparo" e lo si usava anche per essere "a pusi" del rischio economico; al riparo dei rischi con un'assicurazione, ma pure al riparo delle anomalie, quando si trattava di ripartire l'eredità - si sentiva spesso "mèn a metu a pusi i me fioeu" (ho messo al riparo i miei figli) dalle spese del vivere, ma pure del risparmiare "parchè 'dàa vita s'a sa mai chel ca podi sucedi" (per il fatto che nel vivere, si sa mai quel che potrebbe succedere).
La chiosa di uno dei Personaggi che non aveva bofonchiato parola, durante la discussione è stata: "dighi a chi quatar ramersi chi fàn i pulòn sul Dialetto Bustocco, da gni chi a imprendi" (dì ai quattro -si fa per dire, ma possono essere molti di più- sprovveduti che fanno i saccenti sul Dialetto Bustocco da strada, di partecipare a codeste discussioni e, di imparare) ovviamente, per il fatto che del Dialetto Bustocco da strada conoscono "poco", ma fanno di quel "poco" un …… dottorato (falso) d'insegnamento! Per dirla col modernismo …."il Dialetto Bustocco da strada, abita qui" - stavolta, il Nocino è dentro a cinque bicchieri e, quasi in coro, al cin-cin, si eleva il detto "a lasàl voei" (lasciarlo vuoto) vale a dire "a bere". - qui, Giusepèn fa il galante : "digni a chela bràa tusa ca la ma regalà 'l Nocino che a buteglia l'e voia" (ringrazia la brava signora che ci ha regalato il Nocino che, ora, la bottiglia è vuota) Giusepèn s'e furbo mel diavarèn (sei furbo come un diavoletto).