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Lombardia | 17 gennaio 2025, 11:48

Topolino celebra il dialetto: un numero speciale per la Giornata nazionale delle lingue locali

Topolino celebra la Giornata nazionale del dialetto con una storia in quattro dialetti italiani, per preservare e promuovere le lingue locali. Un'iniziativa che unisce cultura e divertimento, sostenuta da esperti e appassionati

Succede che la Banda Bassotti si metta all’improvviso a “fumettare” nel dialetto milanese della “ligera”, la malavita cara a tante canzoni popolari, e Paperon de’ Paperoni risponda nella lingua più aulica del Porta, perché, noblesse oblige, lui parla forbito.

Succede nel numero 3608 di “Topolino”, che in ossequio alla “Giornata nazionale del dialetto e delle lingue locali”, prevista per venerdì 17 gennaio, e istituita nel 2013 dall’Unione nazionale delle Pro loco, è in edicola con quattro diverse edizioni, con la storia portante, intitolata “Zio Paperone PDP e il 6000”, e scritta nel dialetto milanese, catanese, fiorentino e napoletano. 

Un’idea del direttore editoriale Alex Bertani, messa sulla carta da Niccolò Testi con i disegni di Alessandro Perina e l’adattamento in milanese di Vittorio Dell’Aquila, sotto la supervisione del professor Riccardo Regis, dialettologo e docente di Linguistica italiana all’Università di Torino. 

Un'operazione coraggiosa, che vorrebbe insegnare ai più giovani la conoscenza della lingua dei loro antenati, con i dialetti ormai parlati pochissimo e raramente trasmessi da una generazione all’altra. Se nella storia disneyana Archimede parla il dialetto bergamasco della Bassa, Paperone il milanese di città e i Bassotti quello delle campagne (vicino al nostro bosino), nella realtà il dialetto pare dimenticato, parlato ormai soltanto da qualche anziano, mentre un tempo anche la nobiltà si esprimeva volentieri in vernacolo, lingua di assoluta immediatezza e piena di colore

Chi in provincia se ne occupa ancora, pubblicando nel giornale che dirige poesie e storie in dialetto, è Alberto Palazzi, fondatore della rivista “Menta e Rosmarino” pubblicata a Cocquio Trevisago ormai da 24 anni.

«In paese parlano dialetto quelli della mia generazione, i settantenni, ma sempre meno. Il giornale accoglie però due scrittori dialettali, Mauro Marchesotti e Gregorio Cerini. Il primo scrive in un dialetto italianizzato, mentre il secondo in quello antico di Arcumeggia, stretto e un po’ somigliante al ticinese, con parole ormai desuete, perdute. Ma il portavoce più significativo del nostro dialetto è stato Luigi Stadera, autore di molte pubblicazioni, un grande studioso del vernacolo locale. Come editore ho pubblicato anche il libro di Cerini “Ul Giuanin senza pagura d’Arcumegia”, che ci hanno chiesto anche da fuori provincia».

Orino, dove nel 1839 la Tipografia Andreoli pubblicò una quasi incredibile edizione dei “Promessi sposi” scrigno della perfetta lingua italiana, è invece “ul paes dul dialett”, grazie all’idea dell’ex sindaco Cesare Moia di radunare ogni quindici giorni, il mercoledì, gli anziani del luogo alle scuole elementari, a parlare in dialetto e a raccontare le storie di ieri. A raccoglierle è stato lo storico Giorgio Roncari: «Abbiamo pubblicato tre libri, oggi molte di quelle persone sono scomparse e perciò la loro testimonianza è ancora più importante. Gli anziani raccontavano, io trascrivevo e poi traducevo dal dialetto all’italiano non senza fatica, perché il vernacolo cambia di paese in paese, e nei gruppi di interesse su Facebook ci si accapiglia magari sul significato o sulla pronuncia delle parole».

Chi in dialetto ha ricordato i propri genitori è Elena Danelli, titolare con Gaetano Blaiotta della casa editrice GaEle di Cuvio, specializzata nella manifattura di libri d’arte e di poesia. «Sono milanese, e in casa mia sentivo parlare soprattutto dialetto, ma papà mi prendeva in giro quando provavo a parlarlo, mi dava della “milanesa ariusa”. Quando morì mia madre interiorizzai il dolore e non scrissi nulla, però quando mancò mio padre fu come ricevere uno schiaffo, capii che un mondo intero era sparito, così mi misi a scrivere una poesia dedicata a lui intitolata “L’ultim milanes” e poi altre liriche per i miei genitori. Ho anche composto un testo teatrale in vernacolo, “È l’alba in un sottotetto di Milano”, in cui un piccione racconta la sua vita tra le guglie del Duomo. Il dialetto insomma era dentro di me, anche se non lo parlavo tanto, ora invece mi capita anche di fare battute in milanese e lo sto insegnando a un amico inglese, Andrew Jolliffe, un ottimo allievo».

A Varese l’ultima depositaria dell’eredità di poeti come Speri Della Chiesa, Natale Gorini, Uberto Vedani o Nino Cimasoni è la Famiglia Bosina con il “Regiù” Luca Broggini, che ogni anno per la Festa della Giöbia premia il Poeta bosino dell’anno. «Scrivo poco in dialetto, però lo capisco e lo parlo. Ormai lo si conosce poco, perciò abbiamo pensato di avviare a Varese un corso di dialetto, tenuto dal Re Bosino Antonio Borgato e da sua moglie Lidia Munaretti. Avremmo già la sede, quella dell’Associazione Costruttori, e scelto sabato e domenica per le lezioni, in modo da accontentare tutti», spiega Luca Broggini.

Un altro Broggini, Marco, è il segretario della Famiglia Bosina, colui che raccoglie le poesie del premio, che quest’anno sarà assegnato il 30 gennaio al ristorante “Vecchia Riva” della Schiranna. «Sono arrivati 25 componimenti da 14 poeti diversi, provenienti da diverse zone del nostro territorio. La qualità è maggiore rispetto all’anno scorso, e non è stato facile scegliere la terna vincitrice. La nostra giuria è composta da cinque persone, il provveditore agli studi, Giuseppe Carcano, Carlo Brusa, Silvia Bianchi, Patrizia Molinaro e Paola Barlocci, io riunisco i giurati e redigo il verdetto finale. Amo il dialetto, difenderlo è una delle “mission” della Famiglia Bosina, ho letto tutto Speri Della Chiesa ma lo parlo con un po’ di difficoltà, diciamo che non è fluente». 

Il 17 gennaio, oltre a essere la “Giornata nazionale del dialetto e delle lingue locali”, è anche Sant’Antonio abate, e in una delle poesie a concorso, l’autore invoca il santo, invitandolo a diventare il protettore del dialetto. «I giovani non lo parlano più e l’età media dei nostri poeti vernacolari è molto alta, non c’è ricambio, eppure il dialetto è ciò che ci lega alle radici, i termini che indicano i vecchi mestieri e gli strumenti di lavoro oggi scomparsi, esistono ancora».

In un’altra poesia, la Lucia manzoniana diventa una escort e se la fa con un ricchissimo don Rodrigo, posando anche senza veli per il calendario in nome del profitto. I tempi cambiano, ma l’immediatezza del dialetto riesce sempre a farci sorridere, speriamo ancora per molto.

Mario Chiodetti

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