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Busto Arsizio | 29 ottobre 2024, 12:20

Tribunale di Busto: l’icona del Beato Livatino porta un po’ di cielo fra le aule

Il dipinto è stato appeso nell’atrio dal donatore, don David Maria Riboldi, e benedetto dall’arcivescovo di Milano, Mario Delpini. L'appello del prelato davanti ad autorità, forze dell’ordine, professionisti e dipendenti: «Forse non possiamo chiedere a tutti di essere eroi ma dobbiamo chiedere a tutti di credere nell’umanità»

L'icona del Beato Rosario Livatino è stata appesa nell'atrio del Tribunale

L'icona del Beato Rosario Livatino è stata appesa nell'atrio del Tribunale

Salvatore Insenga, cugino del Beato Rosario Livatino, rievoca, in Tribunale a Busto Arsizio, il primo momento di confronto sulla mafia avuto con il familiare. Ripete la domanda posta a suo tempo: davvero è possibile pregare per colui che ha fatto cose tremende? La risposta ricevuta dal magistrato: «Se non pregassi per lui sarei come lui». Aggiunge Insenga: «Rosario non ha mai parlato di antimafia ma di essere per la giustizia. Non era “anti” ma “pro”. Pro uomo, pro vita, pro amore. È stato doppiamente martire. Martire dello Stato, come Falcone e Borsellino. E martire della Chiesa».

Oggi, negli spazi di via Volturno, l’arcivescovo di Milano, Mario Delpini, ha benedetto un’icona dedicata al magistrato, posizionata nell’atrio dal donatore, don David Maria Riboldi, cappellano del carcere. Nel corso della cerimonia con le autorità civili e religiose, i rappresentanti delle forze dell’ordine, i professionisti e i dipendenti, l’applauso è scoppiato, irrefrenabile, quando la voce registrata di don Luigi Ciotti ha scandito una delle frasi più celebri del magistrato: «Quando moriremo, nessuno verrà a chiederci quanto siamo stati credenti, ma quanto siamo stati credibili».

L’icona, realizzata dalle monache di San Benedetto, a Milano, è forse la prima dedicata al “giudice ragazzino” (ma il cugino ha dichiarato di non amare la nota definizione, per la maturità, la consapevolezza e il coraggio che, a dispetto della giovane età, caratterizzavano Livatino). Oltre a soffermarsi sulla frase “Sub tutela Dei”, concetto caro a Livatino, don David ha sottolineato l’azzurro dello sfondo: «Porterà un po’ di cielo anche qui, tra queste aule».

Nel discorso dell’arcivescovo, il legame tra rettitudine e sacrificio, il contrasto tra aspirazioni e realtà, la necessità dell'eroismo: «Sogniamo che fare il nostro lavoro non ci esponga alla minaccia di essere uccisi. Sogniamo che le vittime dell’ingiustizia si possano risarcire, che lo Stato e la società trovino il modo. Sogniamo una vita in cui si possa assolvere al proprio dovere senza essere spaventati delle conseguenze possibili. Ma un mondo così non esiste sempre e dappertutto. Livatino è stato vittima del suo lavoro. In questo mondo imperfetto, in cui c’è il rischio che i delinquenti siano spietati e i condannati annientati, ci vuole dell’eroismo. Anche se non possiamo chiedere a tutti di essere eroi, dobbiamo chiedere a tutti di credere nell’umanità». Compito arduo, ha ammesso il prelato, sottolineando però: «Tutto questo è ingenuità? È un modo per incominciare ad aggiustare il mondo».  

Stefano Tosi

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